L’ultima missione di Capitan Selva

La missione di Capitan Selva

Il drappello di uomini, carico di due mitragliatori a dorso di mulo, partì per la sua missione attraversando a piedi Valnure e Valtrebbia.
Nel corso di questo viaggio Capitan Selva incontrò diversi comandanti delle altre formazioni partigiane. La missione di Selva era importantissima: costituire un comando unico fra i partigiani delle valli piacentine, al di là dei dissapori politici fra le bande. Capitan Selva aveva capito molto bene, che per fare la guerra a fascisti e tedeschi era necessario che i comunisti si accordassero con azionisti, popolari, socialisti, monarchici e liberali al di là  delle differenti convinzioni politiche, e che ciò incarnava la vera essenza della Resistenza.
Presi accordi per un Comando unico di cui Capitan Selva, espressione del CLN di Piacenza, avrebbe dovuto essere il capo, il gruppo partigiano della 38ª Brigata Garibaldina si avviò sulla strada del ritorno, senza sapere che nel frattempo la zona della Valdarda era stata investita da un rastrellamento.

Il ritorno su due camion catturati ai tedeschi

Nei pressi di Rottofreno, sul ponte del Tidone della statale numero 10,  i partigiani di Selva riuscirono a impossessarsi di due camion tedeschi e a catturare quattro militari germanici. Con questi automezzi il gruppo proseguì il viaggio di ritorno. All’Arsenale di Piacenza, erano riusciti addirittura a impossessarsi di un altro autocarro Alfa Romeo, poi abbandonato.
Dopo aver guadato il Trebbia con i due camion, il gruppo partigiano cominciò a imbattersi in convogli tedeschi e udì anche un furibondo scambio di colpi d’arma da fuoco. “A Podenzano” -ricorda il partigiano Ugo Gobbi, che faceva parte della spedizione – “incappiamo in un posto di blocco nemico. Il capitano Selva, che indossa pantaloni e camicia cachi ed un berretto da sottufficiale tedesco, ordina di fermare il camion, avanza verso il nemico e, giunto a pochi passi, saluta con il braccio alzato e chiede la strada per San Giorgio” (1).
I due soldati della Repubblica, ignari di trovarsi di fronte al comandante dei partigiani, gli forniscono le indicazioni stradali richieste e alzano a loro volta il braccio in saluto. Il viaggio prosegue tra San Giorgio e Carpaneto, dove addirittura i due camion con i partigiani si accodano a un convoglio tedesco. Il gruppo partigiano però ancora non sospetta del rastrellamento in corso. Da Carpaneto gli Opel e Mercedes imboccano la strada per Veleia.

Nel pieno di un rastrellamento  nazi-fascista

“Nulla ci fa pensare”  ricorda Ugo Gobbi  “che stiamo invece per entrare nel pieno di un rastrellamento che da giorni devasta le nostre valli. I due camion superano il passo dei Guselli, arrivano a San Michele e, percorso qualche chilometro, i partigiani avvistano a una certa distanza un insolito via vai sul piazzale del ristorante di Prato Barbieri. Selva puntò il suo cannocchiale su Prato Barbieri e disse: ‘Sono proprio tedeschi!”(2)
Solo a quel punto il gruppo partigiano prese atto che era in corso una puntata improvvisa dei tedeschi, o forse addirittura un rastrellamento.
La banda torna così indietro e va incontro al proprio destino. È il 17 luglio. I due camion arrivano a Tabiano e svoltano verso Carpaneto, dopodiché vengono abbandonati in una forra. I partigiani prendono posto poco lontano e preparano il loro accampamento. Capitan Selva dà 50 lire a qualcuno dei suoi e li manda a cercare pane per i partigiani e i prigionieri. Poco dopo, i partigiani a cui era stato consegnato il denaro tornarono con pezzi di pane. Da quel momento tutta la gente del circondario era al corrente della presenza del gruppo partigiano.

Il giorno seguente, capitan Selva invia in pattuglia due uomini nei dintorni per capire cosa stesse accadendo, e le pattuglie tornano dopo un po’ con la notizia che fascisti si trovano a Gropparello, Carpaneto e Lugagnano e che è in corso un vasto rastrellamento nelle zone di Bardi, Groppallo, Morfasso e Prato Barbieri. Ricorda Gobbi: “Solo nel tardo pomeriggio il comandante esce dal nostro riparo e, accompagnato da due partigiani, raggiunge l’osteria della Branda di Tabiano a chiedere se per la sera avevano la possibilità di prepararci un pasto caldo. Seppero nel contempo che alla gente della zona era già nota la nostra presenza” (3).

A Tabiano di Lugagano contro i partigiani di Selva si apposta un reparto della GNR

Il comandante si accordò alla vecchia trattoria “La Branda” anche per un po’ di caffelatte per la colazione del mattino seguente. Mentre tornava verso i suoi uomini, capitan Selva s’imbatté in una donna nel piccolo oratorio vicino all’osteria. La donna aggredì verbalmente Selva affermando che sconosciuti avevano forzato la porta della sua casa e bruciato suppellettili. Il capitano fece un sopralluogo, ma non trovò tracce d’incendio, ma solo bambini impauriti e affamati. (4) Diede così disposizione di procurare cibo anche per i bimbi. Incautamente il capitano pur essendo al corrente che quella donna apparteneva ad una famiglia dove vi era un milite fascista non si insospettì del fatto che lei aveva lamentato distruzione di suppellettili proprio con lui, come se volesse attribuire quel fatto ai suoi uomini, e non si insospettì neppure del fatto che non vi era stato nessun incendio, generosamente dispose anzi che fosse portato pane anche per quei bambini. Al tramonto, capitan Selva e i suoi uomini cenarono all’osteria La Branda a pasta e fagioli, poi si ritirarono sotto il porticato della cascina “Il Palazzo” situata più in alto rispetto alla trattoria. (5)

All’alba del 19 luglio il presidio fascista di Gropparello, informato da uno dei residenti della zona di Tabiano che aveva visto il drappello guidato da Selva, attraversa il torrente e, silenziosamente e senza farsi vedere dalle sentinelle disposte da Selva, si schiera alla vecchia osteria “La Branda” e in una vicina concimaia. In quel momento i partigiani sotto al porticato della cascina Il Palazzo e i fascisti alla Branda sono separati da 500 metri (6).

Capitan Selva dispone i suoi uomini al combattimento

Solo allora Milan, una delle sentinelle partigiane, si avvede dei militi della Guardia Nazionale attestati all’osteria e lascia partire una scarica di mitra verso il cielo, è il segnale di allarme pericolo per i suoi compagni. Dopo aver sparato Milan di corsa rientra fra i compagni. La colazione  prevista è saltata, il drappello partigiano subito si allerta per ben altro, dispone di due mitraglie: una vecchia Saint-Étienne che viene assegnata a Miln e un Bren ricevuto grazie all’ultimo lancio degli alleati. Il Bren è assegnato al partigiano Paride.
“I minuti erano lenti come ore.” Il capitano Selva dispose rapidamente quello che pensava di fare. “Conteggiammo che i fascisti erano più numerosi di noi, almeno trenta” ricorda il partigiano Salvo Cortini, detto Bogio, “ma nonostante tutto Selva decise di attaccare. Sosteneva che i fascisti non se la sarebbero aspettato un nostro attacco e che avremmo potuto contare sull’effetto sorpresa.” (7)

Selva divise gli uomini a sua disposizione in tre squadre: quella al centro con la Saint-Étienne, quella di destra con il Bren e quella di sinistra guidata da Renato con armi individuali. Il vicecomandante e commissario di brigata Renato discute animatamente con Selva: si opponeva all’idea che il comandante di tutti i partigiani piacentini potesse esporsi in una sparatoria dagli incerti esiti. Selva finse di accondiscendere ma poi fece di testa sua. (8)

Selva guida i suoi partigiani all’attacco; un cecchino fascista  lo colpisce a morte dalla finestra di un oratorio

Selva ostinatamente volle guidare i suoi uomini e si prese il compito più difficile: l’attacco al centro, mentre le altre due pattuglie avrebbero dovuto circondare sui fianchi l’osteria per prendere i fascisti sotto un tiro incrociato. Selva corre davanti a tutti, scendendo dal pendio lievemente scosceso in direzione dell’osteria. Selva, a circa cento metri dall’osteria, sta per raggiungere un fossato quando raffiche di mitra gli fischiano molto vicine e, dopo aver saltato il fossato, cerca allora riparo dietro a un vicino muretto, a circa settanta metri dall’osteria. In quel momento il capitano è al coperto; alle sue spalle vi è una finestra aperta della sagrestia adiacente l’oratorio, dove è sfollata la famiglia del fascista aiutata la sera prima dallo stesso comandante. Selva è convinto che il milite della Repubblica, avrebbe dovuto trovarsi a Piacenza. Probabilmente non aveva fatto i conti con il rastrellamento in corso. Selva lascia il suo riparo e percorre qualche altro metro, mettendosi al riparo di un dosso. Alle sue spalle ha l’oratorio e può tenere sotto tiro l’osteria. Scariche di fucileria e raffiche di mitra e mitraglie fascisti e partigiani litigano per diversi minuti. Poi improvvisamente gli spari cessano e cala uno strano silenzio sulla campagna. In quel momento di udì una detonazione secca, isolata. “Chi ha sparato?” gridò Selva nonostante fosse stato colpito in pieno. Il colpo era partito dalla finestra dell’oratorio. Qualcuno dei repubblicani venuti da Gropparello in mattinata? Oppure, nella notte, vi era tornato il milite che vi abitava? (9)

Colpito anche il  suo braccio destro, il commissario della brigata “Renato”

Gli uomini di Selva aprono il fuoco ma in quel momento non hanno ancora capito dove si nasconde il cecchino, Renato corre verso il comandante ferito. Un proiettile gli era entrato dalla scapola sinistra e gli aveva trapassato il petto fuoriuscendo dal costato destro. Renato si inginocchia e il comandante fa in tempo a dirgli: “Renato, portami via…”. Sono le sue ultime parole. Il cecchino della finestra dell’oratorio imbraccia e punta per la seconda volta il suo mirino, questa volta su Renato e tira il grilletto. Il proiettile gli trapassò il petto perforandogli il polmone sinistro. Il commissario ha appena il tempo di lasciar partire una raffica di mitra verso l’oratorio prima di accasciarsi.

È Milan a individuare per primo da dove il cecchino ha sparato i due micidiali colpi di fucile.  Milan con la sua Saint Etienne dirige subito un intenso fuoco di copertura che consente di recuperare il commissario gravemente ferito.
“Lo caricammo su una macchina e fui io a portare Renato alla chiesa di Prato Tesole di Lugnagnano. Rimasi nei pressi della chiesa fino a quando Renato non si fu ripreso” (10) ricorda Bogio.

“Con il capitano Selva ucciso e il commissario Renato gravemente ferito” ricorda Gobbi “ai partigiani rimasti non rimase altro da fare che sganciarsi dal nemico, lasciando a malincuore il corpo privo di vita del loro comandante, là in mezzo a un prato, a poche decine di metri dal nemico che aveva affrontato con tanto coraggio.” I quattro tedeschi fatti prigionieri furono lasciati liberi: era necessario per il gruppo partigiano muoversi il più velocemente possibile per allontanarsi da Tabiano prima che quelli della Repubblica potessero ricevere rinforzi. (11)

Avuto sentore che il gruppo partigiano si stava sganciando, i fascisti arroccati alla trattoria si guardarono bene dal tentare di impedirlo: era un drappello ribelle bene armato e numeroso, avrebbe potuto creare solo problemi. Così, certi di avere il campo libero, i repubblicani lasciarono la trattoria e, armi imbracciate, si aprirono a ventaglio dirigendosi cauti verso il cadavere in mezzo al prato. Il comandante dei fascisti arrivato a pochi centimetri dal ribelle ucciso dal cecchino adocchiò lo splendido cannocchiale che Selva aveva al collo e, per impossessarsene come trofeo, spostò la salma con la punta degli stivali macchiandosi del sangue del morto. Rientrato a Gropparello con i suoi uomini, raggiunse l’Albergo Italia, ordinò all’ostessa Angiolina: “Oggi tortelli e anolini! Abbiamo ammazzato il capo dei partigiani.” E così dicendo alzò lo stivale intriso di sangue per mostrarlo all’ostessa che, sgomenta alla vista del sangue, esclamò: “In questa casa non si fanno tortelli e anolini per la morte di una persona” (12).

 ERMANNO MARIANI

(1)  – Ugo Gobbi partigiano di Valdarda, diario a cura di Fausto Fiorentini in articolo quotidiano Libertà del 27 ottobre 1997

(2) –  Ibidem

(3) – Ibidem

(4) – Ibidem

(5) – Diario di Ugo Gobbi “Al fianco del mio capitano” a cura di Mario Miti, p.47 , Museo della resistenza piacentina,  Monticelli (PC), 2013

(6) – Giuseppe Prati, La resistenza in Val d’Arda, pag. 109, edizioni Vicolo del Pavano, Piacenza, 1994

(7) – Partigiano Salvo Cortini in testimonianza rilasciata all’autore il 4 marzo 2000

(8) – Vladimiro Bersani uomo d’azione il capitano Selva cadde riverso sul manto erboso, Ermanno Mariani, in Corriere Padano 21 luglio 1989

(9) – Giuseppe Prati, op. cit. 110

(10)  – Salvo Cortini cit.

(11) – Ugo Gobbi partigiano di Valdarda, diario a cura di Fausto Fiorentini in articolo del quotidiano Libertà del 27 ottobre 1997

(12) –  Giuseppe Prati, p 112, op. cit.